Sbarcano prima le famiglie con bambini, alcuni sono piccolissimi, c'è un neonato. Tanti ragazzini soli, i minori non accompagnati sono 150, le donne 36, alcune incinte. In tutto 408 persone, ognuna con una storia di perdita e di sofferenza, in fuga dalle miserie dell'Africa Sub-Sahariana o dalla guerra in Siria, tutti passati per la detenzione nella Libia che non rispetta i diritti umani di nessuno, soprattutto di chi ha la pelle più scura. Toccano finalmente terra, a Pozzallo, Europa. Sottratti al rimpatrio nelle prigioni da cui erano fuggiti. Salvati da naufragio mentre navigavano su barche precarie, intercettate tra il 16 e il 17 maggio dalla Sea Eye e rimasti in mare una settimana ad attendere un porto di sbarco. Dalla nave interviene Sophie Weidenhiller, portavoce di questa organizzazione tedesca sostenuta da United for Rescue, una piattaforma di associazioni religiose e laiche. "Siamo finalmente a terra" dice, "ma non capiamo perché, sia stato necessario prolungare ancora l'attesa di queste oltre 400 persone esauste e provate. Perché quando eravamo già vicini a Palermo e il Sindaco ci aveva offerto disponibilità sbarcare, ci è stato chiesto di andare dall'altra parte dell'isola, ricominciando così a navigare. La politica non si può giocare sulla pelle dei più vulnerabili. Le discussioni", conclude Sophie, "vanno fatte nei parlamenti e non ferendo chi ha già perso e sofferto tanto". Lo sbarco segue le consuete procedure: i controlli medici a bordo, il tampone anti-Covid in banchina, l'identificazione nell'Hot Spot, poi il trasferimento dei minori soli in una comunità protetta di Ragusa e la quarantena, a bordo di una nave, per gli adulti e l'equipaggio della Sea Eye.