Lontani dall'inferno di un Paese precipitato nel caos e nella disperazione, parlano i primi cittadini afghani che adesso sono in quarantena in una base logistica dell'Esercito. Davanti ai loro occhi c'è ancora l'orrore, la paura, la fuga che non si ferma, di migliaia di afghani in pericolo dopo il ritorno dei talebani al potere. "Quando sono arrivato lì erano tutti confusi. C'è altra gente che davvero ha bisogno di salvarsi, quindi se qualcuno, come l'Italia, riesce a salvare loro, sarà una grande cosa". Mi cercavano, avevano in mano la mia foto, chiedevano dove fossi ai miei vicini di casa, racconta questo Ufficiale della Polizia afghana che ha collaborato con il contingente italiano ad Herat. "Alle 8 di mattina si sono presentati, un gruppo, il primo gruppo armato, dietro la casa mia, chiedendo di me. Mi cercavano con le foto in mano, che mostravano ai vicini di casa, poiché io ero un Ufficiale della Polizia e lavoravo al Ministero degli Interni". E ancora, c'è chi ora è al sicuro ma non è riuscito a mettere in salvo tutta la sua famiglia. "Sono riuscito a portare solo mia moglie e mio figlio. Gli altri resti della mia famiglia sono rimasti lì". Continua il ponte aereo con l'Italia per portare in salvo, oltre ai nostri connazionali, anche quei cittadini afghani che hanno collaborato con la nostra Ambasciata e con le nostre Forze Armate. Eccoli che scendono dal C-130 dell'Aeronautica Militare arrivato all'aeroporto di Fiumicino. Donne, bambini, famiglie. A bordo c'è anche l'attivista per i diritti umani Zahra Ahmadi, che affida al fratello Ahmed i suoi pensieri. Sullo stesso volo ci sono anche alcune dottoresse che lavoravano nel centro della fondazione Umberto Veronesi ad Herat. Medici, oncologi, radiologi, che avevano messo in piedi un ambulatorio per la prevenzione e la cura dei tumori al seno. Aperto dal 2013, vi accedevano gratuitamente mille donne l'anno.