Gli altri italiani una volta perduta l'Istria torneranno nelle loro case, ma noi dove andremo? Scriveva Guido Miglia, direttore del giornale L'Arena di Pola nei giorni dell'esodo in massa dalla città. Partirono in 28mila, i più all'indomani del 10 febbraio 1947 quando l'Italia, uscita in ginocchio dalla guerra, firmò a Parigi un trattato di pace che cedeva le loro terre e loro case alla Jugoslavia del Maresciallo Tito. Le immagini in bianco e nero del cinegiornale mostrano vite imballate in fretta e caricate sui carri diretti al porto. Con 400 grammi di chiodi a testa, con le porte e le finestre lasciate spalancate. Bisognava abbandonare quei luoghi diventati stranieri, bisognava sfuggire alle deportazioni e alle Foibe, voragini carsiche in cui in quegli anni spariranno a migliaia, gettati insieme i vivi e i morti legati per i polsi col fil di ferro. Da quelle tormentate terre di confine partirono per sempre oltre 300mila italiani per un viaggio senza ritorno verso una patria stremata che non li voleva. Quel che resta di loro sono volti senza nome, vecchie fotografie abbandonate nel magazzino 18 di Trieste, l'antico Scalo dove finirono le masserizie degli esuli istriani, fiumani e dalmati, perché in molti di fronte a una patria che li rinnegava, scelsero di continuare l'esodo fino all'America o all'Australia. Posti lontani dove i ricordi facessero meno male. Il loro sogno di rifarsi un focolare fin' in questo deposito incrostato di salsedine, accatastato tra le sedie, i mobili, le stoviglie, gli attrezzi da lavoro, i quaderni. 2.000 metri cubi di masserizie, pezzi di vite perdute, diventate il monumento a una pagina di storia per troppi anni dimenticata.