Pechino dunque ha ceduto su uno dei cinque punti cardine della protesta di Hong Kong: il ritiro definitivo del disegno di legge sull'estradizione, proposta in base alla quale i nati nella regione a statuto speciale avrebbero potuto essere inviati nel Paese della grande Muraglia continentale per essere processati o soggetti al duro sistema carcerario di Pechino. La cancellazione definitiva del provvedimento in gestazione nell’esecutivo, dopo una prima sospensione, è stata la richiesta inderogabile di migliaia di manifestanti, che da oltre 13 settimane stanno protestando anche duramente per le strade dell'ex protettorato britannico, tornato nel ‘97 sotto l'amministrazione cinese, ma che per contratto con Londra gode di ampia autonomia e libertà. Autonomia e libertà che, secondo le opposizioni attive nel Paese, dal Movimento degli ombrelli gialli a Occupay Central, sono state progressivamente erose dall’esecutivo pro Pechino. Il chief executive di Hong Kong Carrie Lam, nominato dal partito a governare l'ex colonia, ha gestito per sua stessa ammissione la peggior crisi politica nella penisola con esigui margini di manovra. Anche per questo tra i punti del movimento ci sono le sue dimissioni, la richiesta di libere consultazioni democratiche per una nuova nomina alla guida della regione. Migliaia gli arresti e i feriti, danni all'economia e alle strutture. Dopo settimane di perdite la Borsa di Hong Kong ha incassato lo shock positivo dell'annuncio del provvedimento ed è volata oltre il 4%. Sarà ora da capire se questo primo passo possa soddisfare le istanze libertarie dei manifestanti e scongiurare una crisi peggiore di quella già in essere.