Abbiamo introdotto in udienza oltre 200 testimoni proprio per spiegare come avveniva la gestione della cosa pubblica a tutti i livelli: comunale, provinciale, regionale e in alcuni settori dello Stato. E per dimostrare come in realtà la spartizione degli appalti o di altri affari della Pubblica amministrazione segua logiche che non sono la logica della mafia, ma di una spartizione di carattere politico, dove la più grande responsabilità in tutta questa vicenda ce l'ha avuta la politica. È dunque un modello che governa ovunque, in ogni settore del nostro Paese, si chiama “malcostume” no “mafia”. È questo il pensiero, la spina dorsale dell'arringa pronunciata nell'Aula Magna della Cassazione dal difensore di Salvatore Buzzi, l’ex responsabile della cooperativa 29 giugno, condannato a 18 anni e 4 mesi di carcere. “Quattro fatterelli” cosi l'avvocato Diddi, definisce alcuni episodi di estorsione, avvenuti a Corso Francia, luogo in cui si muoveva il gruppo che faceva capo a Massimo Carminati. “Fatterelli che però non dimostrano - dice - l'esistenza di un’associazione, né è dimostrata la fusione”, come invece è sostenuto nella requisitoria dal Procuratore Generale. Tra il gruppo di Carminati è quello riconducibile a Buzzi nessuna fusione, nessuna associazione per delinquere. Ma al di là dei comportamenti è chiaro che tutto il processo ruota intorno all'applicabilità o meno dell'associazione del metodo mafioso. La Suprema Corte dovrà stabilire se cioè pervasività, capacità di infiltrazione e, in alcuni casi, intimidazione, sono o meno modalità che integrano quel metodo, a prescindere dalla violenza, così come stabilito in Appello, e ribadito dalla Procura Generale.