Due mesi prima di morire l'ultimo incontro con i magistrati di Palermo nel carcere dell'Aquila. Un interrogatorio in cui Matteo Messina Denaro, seppur provato, debole, consapevole di essere alla fine, non perde le sue certezze, ne la sua aria di sfida quando si definisce un uomo libero nonostante i 30 anni di latitanza e racconta delle visite mediche e dei tatuaggi fatti mentre era ricercato. Parla dei suoi tanti documenti falsi, carte d'identità vuote a decine, fatte a Roma, spiega, perché a Roma ci sono documenti per chiunque. Documenti seri. Ai PM parla di un mondo e di relazioni più ampie di quelle che ci si potrebbe aspettare da un latitante. Le mie amicizie, dice, non è che iniziano e finiscono solo nel mondo che voi considerate mafioso, non è così, le mie amicizie erano dovunque. E ammette per la prima volta di essere un mafioso: sono, tra virgolette, un mafioso per come mi considerate voi, un poco anomalo, nel senso, aggiunge, che non mi sono inimicato nessuno nel mio paese. Chiunque mi vuole bene. Parla anche della strage di Capaci, lo fa a modo suo, senza mai approfondire. A me sembra un poco riduttivo dire che a Falcone lo hanno ucciso per la sentenza del maxiprocesso, se poi voi siete contenti di ciò, continua, sono fatti vostri, ma la base di partenza non è questa. Insinua verità e trame e non le spiega. I veri mafiosi sono altri, sono in giro, afferma. Lancia il suo messaggio senza dire di più.