Matteo Messina Denaro usciva e incontrava gente, usava la sua Giulietta per spostarsi all'interno ma anche fuori da Campobello, andava al bar, al ristorante, a fare la spesa e nella casa di vicolo San Vito in cui abitava riceveva persone, frequentava almeno due donne. A due settimane dall'arresto davanti alla clinica La Maddalena di Palermo, dalle indagini avviate per ricostruire la rete di fiancheggiatori, dalle perquisizioni in tre appartamenti, dalle voci che circolano tra gli abitanti, emerge la ricostruzione di una vita quasi normale che il boss conduceva grazie a documenti falsi e alla protezione dei suoi fedelissimi. Negli ultimi due anni, quando si muoveva fuori dal paese, quando andava a Palermo per curarsi, utilizzava l'identità di Andrea Bonafede, il geometra arrestato lunedì per associazione mafiosa e che per la Procura di Palermo non era un semplice prestanome che lo aveva aiutato a trovare una casa e un auto, era un affiliato all'organizzazione mafiosa. A casa, il boss stragista aveva altre cinque carte d'identità intestate a persone reali e poi contraffatte con la sua foto. Nel più stretto riserbo le indagini vanno avanti sui titolari di questi documenti e sui tanti altri che hanno permesso a uno dei 10 latitanti più pericolosi al mondo, ricercato numero uno in Italia, condannato ad una serie di ergastoli per le stragi del '92 e '93 e per una serie di efferati omicidi, di vivere quasi come un cittadino qualsiasi per 30 lunghi anni. Una rete di protezione, che il presidente della Corte d'Appello di Palermo Frasca ha definito inquietante e che si allarga, lo ha confermato il Procuratore capo De Lucia, a quegli ambienti della borghesia mafiosa e delle logge massoniche, a settori dell'imprenditoria e della sanità in cui, nella provincia di Trapani ma non solo, la mafia ha ormai salde le sue ramificazioni e in cui il boss, ha goduto di un appoggio che va bene al di là del braccio armato di Cosa Nostra.