Esistono ragioni oggettive per cui un evento resta indelebile nella memoria di una collettività. E poi ce ne sono altre che è difficile spiegare. È così. Ognuno di noi sa perché da un anno Giulia è per tutti noi Giulia Cecchettin. In un Paese, il nostro, in cui i femminicidi sono decine e decine, in cui ancora le cronache raccontano di mariti, compagni e uomini che uccidono mogli, compagne e donne, Giulia, il suo sorriso, la sua giovinezza, i suoi sogni, è diventata il simbolo di tutte le donne a cui la vita viene brutalmente portata via da un assassino. Nel caso di Giulia, Filippo Turetta, l’ex fidanzato oggi a processo, che ai giudici ha detto quello che tanti assassini dicono quasi tutte le volte: “L’ho uccisa perché non voleva tornare con me”. Giulia è stata uccisa un anno fa e da subito la famiglia, papà Gino e i suoi due fratelli, sono stati inondati d’amore e lettere, tutte scritte a mano. Il suo papà le conserva in camera di Giulia. “Ero in pericolo, grazie a te ho trovato la forza di allontanarmi”, “Giulia, grazie per avermi dato una forza che non pensavo di avere”. Se un senso siamo costretti a cercare nella morte di Giulia è che possa aver dato coraggio ad altre di dire basta. Papà Gino ha contato le lettere, sono 3000 e raccontano il dolore di un Paese intero. Persino quello di un bambino, Emanuele, che a undici anni scrive: “Prometto di non essere mai come Filippo”. Turetta nei giorni scorsi è stato a lungo interrogato nell'aula d'Assise di Venezia, seconda udienza del processo con rito abbreviato. Il 25 e 26 novembre ci sarà il dibattito. La sentenza è attesa per il 3 dicembre. Turetta deve rispondere di omicidio aggravato dalla relazione affettiva con la vittima, dallo stalking, dalla premeditazione e dalla crudeltà. Ma anche di sequestro di persona e occultamento di cadavere.