Le nubi che si addensano minacciose sul futuro dell’ex Ilva non sono solo quelle prodotte dai camini della più grande acciaieria d’Europa, tornati a far paura nei giorni scorsi per le presunte emissioni inquinanti denunciate dagli ambientalisti ma smentite da azienda e agenzia regionale per l’ambiente. Il siderurgico tarantino, che ha visto scendere la sua produzione ad appena 3 milioni di tonnellate di acciaio contro le 11 possibili, in difficoltà persino nei pagamenti a Snam, che nei prossimi giorni potrebbe chiudere i rubinetti del gas, è a un bivio: rilanciarsi o chiudere. Il rilancio, secondo i sindacati, passa per quella nazionalizzazione già studiata e programmata dai governi Conte e Draghi ma messa in stand by dall’esecutivo Meloni. Attualmente, Acciaierie d’Italia, come l’ex Ilva si chiama, è detenuta al 62% dal socio franco-indiano Arcelor Mittal, con il restante 38% nelle mani di Invitalia, l’agenzia nazionale per lo sviluppo di proprietà del Ministero dell’Economia. L’obiettivo dei piani elaborati dai precedenti governi era quello di ribaltare questo equilibrio di forze, portando di fatto la maggioranza nelle mani dello Stato. Questo garantirebbe nuova liquidità alle casse dell’azienda, la cui governance, al momento, non sembra nemmeno in grado di pagare le bollette del gas. Ma la questione, che sarà al centro nelle prossime ore di una serie di incontri decisivi, è più complessa di quanto sembri. I lavoratori, per ora, restano alla finestra, ma i sindacati si dicono già pronti alla mobilitazione.