Come oggi, nel '92 il 19 luglio era un'afosa domenica a Palermo, il giudice Paolo Borsellino stava andando a trovare l'anziana madre in via d'Amelio, quando 90 chili di tritolo, esplosero al suo arrivo uccidendolo insieme a quelli che la moglie Agnese avrebbe chiamato poi i suoi angeli custodi, gli agenti di scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. Squarciando la strada, danneggiando decine di appartamenti, ricoprendo di una nube nera una città ancora sotto choc per quell'altro sanguinario attentato, costato la vita due mesi prima, a Capaci a Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, agli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Due stragi 28 anni dopo ancora con molti interrogativi e dubbi, poche le risposte e le certezze emerse da quel buco nero di depistaggi, segreti e complicità in quello scellerato ponte tra stato e mafia di cui poco ancora si conosce perché chi sapeva non ha mai parlato. La lunga vicenda giudiziaria va avanti da decenni tra condanne e assoluzioni, senza mai riuscire a ricomporre del tutto il puzzle della verità. Alcuni dei boss condannati sono morti in carcere come lo spietato Totò Riina. Altri sono ancora latitanti come Matteo Messina Denaro, ritenuto responsabile oltre che delle stragi di Palermo del '92 anche di quelle del '93 a Roma, Firenze e Milano. Ma restano nell'ombra nomi e volti di chi spiò i giudici, di chi li intercettò, li seguì da vicino, comunicò orari e spostamenti ai sanguinari boss mafiosi. Dopo la morte dell'amico e collega Giovanni, Paolo Borsellino sapeva che una condanna pendeva sulla sua testa, ripeteva: "mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia. Forse saranno mafiosi, quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri". Malgrado i processi abbiano sancito nomi e volti degli esecutori materiali, la domanda resta la stessa: chi e perché ha tradito e voluto la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?.