La battaglia commerciale sulla pasta tra Stati Uniti e Italia nasce ben prima della presidenza Trump, ma si inserisce perfettamente nel solco delle politiche di The Donald. Chi non produce negli Stati Uniti paga. Nell'estate del 2024, su segnalazione di alcuni produttori americani, il Dipartimento del Commercio ha avviato un'indagine su un presunto dumping da parte di alcuni marchi italiani della pasta, ossia avrebbero venduto a un prezzo molto basso, inferiore al costo di produzione per sbaragliare la concorrenza. Da qui l'istruttoria governativa. Ben 13 produttori di casa nostra, non avrebbero fornito risposte accurate e complete e l'accusa del governo americano, facendo scattare le tariffe punitive, cioè una tassa all'importazione per riequilibrare i prezzi. Storicamente questi provvedimenti si limitano a piccoli aggiusti. Invece nell'epoca trampiana dei super dazi, la decisione preliminare impugnabile, impone un rincaro di quasi il 92%, che aggiunto al 15% già in vigore per tutte le merci europee, darebbe quasi il 107%, vuol dire prezzi poco più che raddoppiati allo scaffale per i marchi sanzionati, con concreto rischio di non vendere più nulla e uscire dal mercato. Quanto varrebbe la stangata? A differenza di quanto comunemente si pensa, l'agroalimentare italiano è solo una parte del nostro export verso gli States. Grosso modo 8 miliardi sui 65 di merci vendute oltreoceano. Il rischio è evitabile se le aziende forniranno i dati richiesti, fanno sapere da Washington. In quel caso c'è ancora tempo. L'aliquota antidumping scenderebbe al sette o 10%. .























