Un nuovo capitolo nella saga dei dazi, con genesi però diversa dalle tabelle del Liberation Day. La vicenda nasce infatti prima della rielezione di Trump alla Casa Bianca, ma sembra destinata a inserirsi perfettamente nel solco delle politiche di The Donald: chi non produce negli Stati Uniti paga dazio. Nell'estate del 2024, su segnalazione di alcuni produttori americani di pasta, il Dipartimento del Commercio ha avviato un'indagine su presunto dumping da parte di alcuni marchi italiani della pasta, Ossia, avrebbero venduto a un prezzo molto basso, inferiore al costo di produzione, per sbaragliare la concorrenza. Da qui l'istruttoria governativa per stabilire se applicare dazi antidumping, cioè una tassa all'importazione per riequilibrare i prezzi. Storicamente questi provvedimenti si limitano a piccoli aggiusti. Invece, nell'epoca trumpiana dei super-dazi, il rapporto ha stabilito che due dei marchi nostrani più in vista abbiano venduto a prezzo super scontato e non abbiano collaborato adeguatamente durante l'inchiesta. Accuse rigettate dai produttori. Quindi, per riequilibrare, occorre applicargli una tariffa del 91,74%. Da qui il dazio che, aggiunto al 15% già in vigore per tutte le merci europee, darebbe quasi il 107%: vuol dire prezzi poco più che raddoppiati allo scaffale. Non per tutti i marchi, solo quelli sanzionati e per i pacchi non prodotti negli Stati Uniti. Quanto varrebbe la stangata? A differenza di quanto comunemente pensiamo, l'agroalimentare italiano è solo una parte del nostro export verso gli States, grosso modo 8 miliardi sui 65 di merci vendute oltreoceano. Vero è che, degli oltre 4 milioni di tonnellate di pasta prodotte nello Stivale ogni anno, il 60% prende la via dell'estero e gli Stati Uniti sono il secondo mercato di approdo dopo la Germania. Insomma, il dossier del Dipartimento del Tesoro comunque scotta e non intendiamo il punto di cottura della pasta. .























