L'accordo fra stato Arcelor Mittal chiude la battaglia legale iniziata 3 mesi fa sull'ex Ilva, ma non decreta la fine della partita sul futuro del polo siderurgico. L'intesa evita lo scontro in tribunale, nato dopo che la multinazionale indiana aveva minacciato di restituire le chiavi di Taranto e degli altri stabilimenti che aveva in affitto, ma sposta nei prossimi mesi la definizione di una serie di obiettivi che rappresentano il cuore dell'intesa. Servirà quindi altro tempo e per questo i sindacati parlano di situazione di stallo. Con l'accordo si riscrive il contratto col quale l'Ilva è stata consegnata ad Arcelor Mittal nel novembre del 2018. L'idea è che una società pubblica affianchi il gruppo indiano, che pagherebbe così un canone meno caro per mandare avanti gli impianti. Entro la fine dell'anno, però, il gigante dell'acciaio avrà la possibilità di ritirarsi dall'Italia, pagando una penale di 500 milioni di euro, una cifra considerata bassa visto il giro d'affari della multinazionale. Se questa opzione fosse esercitata l'ex Ilva finirebbe interamente nelle mani dello stato. Cruciale, quindi, il nuovo piano industriale che punta all'utilizzo di tecnologie meno inquinanti con l'adeguamento delle strutture esistenti a carico in parte delle finanze pubbliche, e il raddoppio entro il 2025 della quantità di acciaio sfornato. Dal livello di produzione dipende il posto di lavoro di quasi 11000 impiegati. L'obiettivo di 8 tonnellate di acciaio l'anno, se confermato, è ambizioso e comunque lontano nel tempo ma Arcelor Mittal, che aveva annunciato migliaia di esuberi in autunno, si è impegnata a garantire i livelli attuali di occupazione alla fine dei 5 anni. Nel frattempo però si andrebbe avanti a ranghi ridotti, col ricorso alla cassa integrazione che dovrebbe riguardare circa 1300 operai. Più vago invece il destino di altri 1800 lavoratori, adesso in carico alla vecchia Ilva, quella in amministrazione straordinaria, sui quali c'è l'impegno comunque a una ricollocazione.