Lo stallo post-elettorale sì e l’impennata dello spread no. Ma come, non doveva arrivare una burrasca sui mercati in caso di mancanza di una maggioranza in grado di formare un nuovo governo? E invece per ora calma quasi piatta, a differenza di quanto avvenne in occasione delle elezioni politiche precedenti. Prendiamo lo spread, numero fondamentale, perché se aumenta la spesa per pagare il nostro enorme debito pubblico altro che reddito di cittadinanza e taglio delle tasse. Lunedì, 25 febbraio 2013. A urne appena chiuse il mercato dei titoli di Stato balla: da 255 punti il differenziale balza a 344, quasi 100 punti in poche ore, una enormità. Tuttavia è una fiammata breve. Quando Enrico Letta, due mesi dopo, va a Palazzo Chigi il differenziale torna in area a 270 punti. Di quelle oscillazioni ormai non c’è che il ricordo. Abbiamo aperto l’anno a 160, viaggiamo senza scosse tra i 140 e i 150 punti. Per due motivi: il primo si chiama BCE. Oramai da tre anni (il quantitative easing è partito nel marzo 2015) la Banca centrale emette molti miliardi nell’acquisto dei titoli di Stato dei Paesi dell’Eurozona di fatto tenendo a bada i prezzi e anestetizzando i possibili eccessi di nervosismo. Poi ― dicono gli analisti ― ormai ci stiamo abituando a lunghe situazioni di stallo nella formazione dei governi. Gli esempi sono eccellenti: dalla Spagna che dopo un anno di blackout si è riaffidata a Rajoy, alla Germania che ha votato a settembre e solo domenica ha sciolto il nodo sull’ennesima grande coalizione, passando per paesi più piccoli come Belgio e Olanda. I mesi senza governo non hanno neanche prodotto effetti particolarmente negativi sulla crescita economica di quei Paesi e quindi si resta in attesa: stallo in politica, stallo sui mercati. Almeno per ora, in attesa di vedere se e in che modo il successo di partiti a vario titolo euro-critici che sommano quasi il 60 per cento dei voti si tradurrà in scelte di governo.