Nessuna rivoluzione per le pensioni con la manovra, complice la penuria di risorse e i vincoli europei di bilancio. Restano così in vigore i sistemi di anticipo esistenti che altrimenti sarebbero scaduti. E cioè, quota 103, almeno 62 anni di età e 41 di contributi, insieme a Opzione Donna e Ape Sociale dedicate ai lavoratori svantaggiati. Tutte formule che, dopo la stretta decisa l'anno scorso, comportano consistenti penalizzazioni economiche e che, si stima, continueranno a frenare le uscite. La regola generale per lasciare il lavoro resta dunque quella dei 67 anni di età fissato dalla legge Fornero, fermo restando la possibilità di andar via se si hanno 42 anni e 10 mesi di contributi, un anno in meno per le donne. Vengono, per contro, rafforzati gli incentivi per prolungare la carriera con una maggiore detassazione del cosiddetto bonus Maroni e la possibilità, solo per gli impiegati pubblici, di restare fino a 70 anni a certe condizioni. Tra le novità l'ampliamento della possibilità, già in vigore, di andare in pensione a 64 anni di età, un minimo di contributi e un assegno che arriva poco sopra i 1.600 euro lordi al mese. Chi è infatti iscritto a una forma di previdenza complementare, potrà sommare ai versamenti INPS la rendita maturata col fondo privato in modo da poter raggiungere quanto necessario, cioè un importo pari a tre volte l'assegno sociale. Questa chance riguarda solo chi ha iniziato a lavorare dal 1996, ma per poter sommare quanto ha fruttato il fondo, sono necessari 25 anni di versamenti, 5 in più rispetto a chi ha solo l'INPS. Magrissimo il ritocco delle pensioni minime, con un aumento inferiore a due euro al mese. Questi assegni sono più o meno fermi allo stesso livello di un decennio fa, se si tiene conto dell'aumento dei prezzi. E a proposito di inflazione, il consueto adeguamento degli assegni previsto per legge l'anno prossimo sarà dello 0,8%, ma solo per quelli più bassi visto che man mano che il cedolino diventa più pesante, l'incremento si assottiglia.