Ci sono ancora le lire quando in Italia spunta il primo tetto all’uso del contante. È il 1991 e il limite ai pagamenti in carta frusciante è di 20 milioni. Da allora l’asticella è andata su e giù molte volte. Nel 2002, con l’introduzione dell’euro, è a 12.500 e da questa soglia scende e risale fino al 2011, quando il Governo Monti stringe a 1.000. Nel 2016 il tetto è a 3.000. Dal 2020 a oggi, a 2.000. L’obiettivo di tornare a 1.000 euro nel 2022 è slittato perché l’anno scorso il Parlamento, coi voti del centrodestra, ha rinviato la data al 2023. Quando, però, probabilmente il tetto sarà superiore a quello attuale, viste le intenzioni del nuovo Governo e la proposta della Lega di arrivare a 10.000. Giorgia Meloni ha confermato che si metterà mano al tetto al contante, senza indicare la cifra, aggiungendo -fra le altre cose– che “penalizza i più poveri”. Secondo l’ISTAT 1,9 milioni di famiglie, pari a 5,6 milioni di italiani, sono poveri “assoluti”, cioè non riescono a comprare beni e servizi ritenuti essenziali per avere una vita dignitosa. Parliamo, per fare un esempio, di una coppia con due figli piccoli che vive in una grande città e che ha disposizione fra 1.300 (al Sud) e 1.700 euro al mese (al Nord). Per tutte queste persone la possibilità di non poter spendere 2.000 euro in contanti in una volta sola -il limite vale per ogni singolo acquisto- non sembra un problema, visti i pochi soldi che hanno in tasca. Ma anche per il resto degli italiani, che se la passa meglio, non appare un grosso ostacolo il vincolo esistente. In media, le famiglie nel nostro Paese spendono 2.437 euro al mese per tutti i loro consumi, ma la metà supera di poco i 2.000. Nel resto d’Europa sui contanti si viaggia in ordine sparso. Prevedono un tetto diciotto Paesi -compreso il nostro- e fra questi ci sono Francia, Spagna, Portogallo, Belgio e Grecia, con –in alcuni casi- limiti più stringenti dei nostri. In Germania non c’è, ma chi sborsa più di 10.000 euro deve presentare la carta d’identità.























