Mancano tre settimane al diploma, il 20 aprile del 1999, quando due studenti della Columbine High School di Littleton, sobborgo di Denver, Colorado, compiono una delle più sanguinose stragi in una scuola negli Stati Uniti: 13 vittime. Sono le 11 del mattino, Eric Harris e Dylan Klebold di 17 anni, piazzano una bomba che avrebbe dovuto fungere da diversivo in un campo poco distante. Altri due le introducono a scuola, poi aspettano le esplosioni. Il piano è quello di sparare agli studenti terrorizzati ma non va così. Il timer non funziona, le bombe non esplodono. Allora, prendono le armi, i fucili a pompa e una novantina di bombe a tubo, ordini improvvisati e fanno irruzione, salgono in cima alle scale ed iniziano a sparare. Si muovono tra le aule, in caffetteria, nella biblioteca continuano a sparare; parlano con i compagni, i loro bersagli. Alle 12:02 Harris e Klebold si suicidano. 23 minuti per un massacro. La Polizia entra nella scuola due ore dopo; una strage che ha cambiato l'immaginario e anche le regole perché adesso la Polizia può fare irruzione anche se ci sono ostaggi. Una strage che non ha una spiegazione anche se, anni dopo, psicologi analizzarono le personalità di Harris e Klebold. Il primo affetto da una forma di psicopatia, il secondo depresso. L'età degli aggressori, il luogo, i modi. Columbine è un simbolo. Ma non è rimasta a lungo un caso isolato in un'America in cui la discussione sull'uso e il controllo delle armi non si è mai conclusa.