Di Paul Auster ci sono pochissime immagini. Schivo nonostante la sua debordante creatività che lo ha portato a scrivere poesie, romanzi, saggi, sceneggiature e a dirigere film. Forse il miglior modo per dirgli addio è salutarlo con le immagini della sua città New York di cui è stato uno degli ultimi cantori. Una New York labirintica dove il sordido si mescola al sublime, la poesia alla brutalità e non a caso il suo capolavoro è la trilogia dedicata alla Grande Mela. "Città di vetro" del 1985, "Spettri" nel 1986 e "La stanza chiusa" del 1987. Una parodia dell’hard boiled in cui la trama si dipana in tre romanzi e trova la sua soluzione solo alla fine in un continuo rimando tra le storie in un intreccio complesso, come il caleidoscopio di riflessi dei grattacieli che si perde nelle ombre dei vicoli. Così come "4321" del 2017, altro affresco in cui la trama prende quattro direzioni diverse con lo stesso protagonista che rimane coerente nelle tante possibilità dell'esistenza. L'alternanza tra caos e ordine è il tema ricorrente di Auster che sembra sempre in bilico tra i due estremi alternando opere intellettuali come la trilogia a romanzi profondamente intimisti come l'ultimo "Baumgartner" del 2023, pubblicato in occasione dell'annuncio della sua malattia. Auster ci lascia nella sua amata Brooklyn, protagonista delle sue opere cinematografiche "Smoke" e "Blue in the face" dove assolutamente controcorrente nell'imperante cultura proibizionista americana scrive una sorta di elegia del tabacco. Con lui se ne va uno degli ultimi poeti della sua generazione che insieme a Lou Reed, Woody Allen, Billy Joel hanno trovato nella città più intellettuale degli Stati Uniti la propria musa, una città oggi soffocata dalle speculazioni immobiliari e abbandonata dai suoi storici residenti che forse non rispondeva più alla sua poetica. La sua vita è stata altrettanto altalenante, premiata dal successo ma devastata dalla tragedia della morte del figlio e della nipote in circostanze tragiche. Caos e armonia in una lotta senza fine.