"Ovviamente la vediamo diversamente": così ha riassunto le frustrazioni americane nei confronti dell'alleato israeliano il portavoce della Casa Bianca John Kirby. Benjamin Netanyahu continua a liquidare le pressioni americane per moderare l'intervento militare a Gaza e per favorire, dopo il conflitto, la creazione di uno Stato palestinese, ipotesi che il premier d'Israele ha di nuovo recentemente escluso. Non è la prima volta che fa un passo indietro sulla soluzione a due stati sostenuta pubblicamente per la prima volta soltanto nel 2009 e abbandonata già durante la campagna elettorale del 2015. Per tutte le amministrazioni americane si tratta dell'unica strada per risolvere il decennale conflitto. Da qui la non inedita e malcelata frustrazione di Joe Biden e dei suoi nei confronti di Netanyahu interlocutore ben conosciuto e alla guida di Israele da decenni. Era il 2010. L'allora vicepresidente era da poco arrivato a Gerusalemme dichiarando incrollabile sostegno per la sicurezza di Israele. Poche ore dopo Netanyahu annunciò la costruzione di 1.600 nuove unità abitative a Gerusalemme est. "Precisamente il tipo di passo che mina la fiducia di cui ora abbiamo necessità" disse Biden. La nota insofferenza tra Netanyahu e l'ex presidente americano Barack Obama aveva origine proprio nelle differenze ideologiche sulla risoluzione del conflitto. Così Obama ci mise giorni per congratularsi con Netanyahu per le elezioni del 2015 e nel 2016 Netanyahu fu il primo premier israeliano a rifiutare un invito a Washington. La pubblica opposizione di Obama alla costruzione di insediamenti in Cisgiordania però non arginò per nulla la loro espansione. Diverso quando Donald Trump sedeva alla Casa Bianca. L'ex presidente manteneva un rapporto solido con Netanyahu rafforzato dalla decisione della sua amministrazione di spostare l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme e dal ruolo svolto da Washington nella sigla degli accordi di Abramo che hanno normalizzato i rapporti tra Israele e diversi paesi arabi.