La paura come una costante, come un bagaglio da cui non possono staccarsi nella fuga lungo tutto il loro minuscolo territorio, i gazawi sono braccati da Nord a Sud, continuamente costretti a spostarsi lungo i 20 km della striscia. Prima da Gaza City verso Khan Younis, e poi ancora da Khan Younis a Rafah alla disperata ricerca di un posto dove non possono essere raggiunti dai continui raid delle forze israeliane. Con pochissimo cibo, acqua, medicinali ma anche, più banalmente, riparo. Le immagini satellitari dimostrano come nella città al confine con l'Egitto nel corso delle ultime settimane i profughi si siano ammassati in cerca di riparo e aiuti. La situazione però è cambiata di nuovo e Rafah è divenuta teatro della massiccia offensiva dell'esercito israeliano. E i profughi sono dilaniati come dimostrano le storie che ci raccontano. Come quella di Mai Anseir. La sua è una storia drammatica. Ha un figlio piccolo cardiopatico e le manca il minimo indispensabile come latte e medicine. La nonna, Abeer, conferma il racconto della figlia. E racconta anche l'orrore della loro fuga in mezzo ai corpi straziati dai bombardamenti, della fuga da Nord a Sud in cerca di un rifugio dai continui raid, del nulla in cui sono costretti senza nemmeno gli aiuti umanitari che arrivano a singhiozzo e si esauriscono subito. Ci hanno detto di venire qui che era un posto sicuro ma non lo è. Una fuga dalla morte verso la morte, ripetono, lanciando appelli affinché gli aiuti possano arrivare anche a loro bloccati in mezzo a un nulla che ora è divenuto anche pericoloso. Un nulla che vogliono abbandonare. Però non tutti vogliono scappare come Abu Hassan al Attar la cui famiglia vive nel campo di al Shaboura dal 1948. "Siamo martiri, lo siamo da sempre. A ogni persona che scappa dico: torna a casa, meglio che essere sfollata". Un consiglio che però può rivelarsi mortale oggi a Rafah.























