“Capisco le preoccupazioni sulle intenzioni del Governo di riavviare il processo legislativo sulla legge per l'estradizione. Ed è per questo che oggi vorrei chiarire che gli emendamenti a quella legge sono morti”. Non bastano le rassicurazioni di Carrie Lam, il Governatore di Hong Kong, per sciogliere le barricate. Nessuno dei leader della violenta protesta senza leader, in corso da giorni a Hong Kong contro la legge sull'estradizione, lascia le postazioni. I timori di non veder rispettati i solenni impegni presi da Pechino nel '97 sono più che fondati, quando Hong Kong fu restituita da Londra alla Cina con promesse di conservare il suo stile di vita, le libertà consolidate e il suo sistema capitalista. Non basta una promessa, ma serve centrare tutti i punti del manifesto della protesta. Agli studenti dell'ex protettorato britannico, nel cuore del Paese della Grande Muraglia, è chiaro il destino di tutti i dissidenti e i condannati nel sistema penitenziario cinese. Prigione a cielo aperto, intere città in cui si lavora anche 16 ore al giorno. Nonostante le promesse di smantellamento, sarebbero ancora oltre mille i laogai, i campi in cui si realizzano le diverse forme di lavoro forzato previste dal sistema giuridico e carcerario cinese. Ecco perché le proteste oceaniche, da giorni in corso sull'isola di Hong Kong, non si fermano. 7 milioni di abitanti autonomi nel sud-est della Cina non credono alle promesse del Governo di Pechino e chiedono l'avvio di un processo di democratizzazione. Mobilitazione confermata, dunque, sino al ritiro formale della legge. Parola del Civil Human Rights Forum, una delle principali organizzazioni in cui si è riunita la protesta. Il sospetto per Joshua Wong, uno dei leader, è che le parole di Lam siano un'altra ridicola bugia.