É questa la confessione che ha fatto scattare la sua condanna a morte. Parole che in seguito Navid Afkari, un wrestler iraniano, giustiziato poche ore fa nel suo Paese, aveva ritrattato perché quella dichiarazione gli fu estorta con la tortura. A nulla sono serviti gli appelli della comunità internazionale. Il giovane lottatore arrestato insieme ai suoi due fratelli per aver ucciso un agente in borghese durante le proteste antigovernative del 2018, dopo indagini rapidissime e poco limpide, è stato giustiziato impiccato, aveva 27 anni, da subito, furono in molti a sostenere che non ci fossero prove concrete della sua colpevolezza. Il suo caso aveva attirato l'attenzione della comunità internazionale che ne chiese la scarcerazione. I social media hanno puntato il dito contro Teheran, definendo Afkari e i suoi fratelli delle vittime, colpevoli soltanto di aver partecipato alle proteste contro la teocrazia sciita iraniana nel 2018. Per lui, che aveva denunciato più volte di essere stato torturato in carcere si spese anche Donald Trump, chiedendo di risparmiargli la vita. Poche ore fa la sua esecuzione, nato feroce e crudele secondo il segretario di Stato statunitense Mike Pompeo. Scioccato dalla condanna a morte del giovane atleta iraniano anche il comitato olimpico internazionale.