Le sirene hanno risuonato su entrambi i lati del confine sud. Ad Ashqelon e nelle altre città meridionali di Israele, e a Gaza, per tutta la notte. L’enclave palestinese – secondo quanto riportato dallo Stato Ebraico – ha lanciato una serie di razzi verso il confine nord e, puntualmente, il sistema antiaereo Iron Dome li ha intercettati. E, altrettanto puntuale, è scattata la ritorsione israeliana, con una serie di raid mirati verso obiettivi di Hamas, tra cui forse anche una fabbrica di razzi. Il bilancio, da entrambi i lati del confine, è senza gravi conseguenze, con nessun ferito, come se si fosse assistito a una sorta di macabra liturgia che sia Hamas che Israele erano quasi obbligati a rispettare. Dopo il sanguinoso e controverso raid dello Shin Bet in Cisgiordania, però, la tensione tra palestinesi e Israele è ritornata a livelli di guardia. Del resto, il ritorno alla guida dello Stato Ebraico da parte di Benjamin Netanyahu è sicuramente un elemento da non trascurare, come il blitz a Jenin sembra un segnale di una linea più intransigente da parte di Israele. Certo, il blitz per catturare tre presunti terroristi è stato un passo verso un’escalation che non potrebbe giungere in un momento peggiore a livello internazionale. È vero, il Medio Oriente è una polveriera da quasi un secolo, con continue impennate di violenza e successivi periodi di relativa stabilità. E per evitare che si assista all’ennesima escalation che gli USA hanno deciso di inviare il loro segretario di Stato nell’area, e di fargli incontrare tutte le parti in causa. Questa volta, però i nodi da sciogliere sono parecchio ingarbugliati. L’ANP, che governa in Cisgiordania, ha interrotto la collaborazione con Israele, dopo il raid di Jenin, e così, i già scarsi canali di comunicazione sono ancora più sfilacciati. Sarà complicato per Antony Blinken dare spazio a concessioni per placare entrambe la parti. L’agenda internazionale punta in un’altra direzione.