È un atto di grande coraggio scendere in piazza a Kabul per protestare contro le mancate promesse talebane. Un atto di grande coraggio se si è donna, magari non sposata, professionista o laureata prima dell’arrivo del nuovo regime talebano. Le promesse non sono state mantenute e a poco meno di un anno dalla presa di potere dei talebani la regressione nei diritti delle donne è palese e sono state annullate le conquiste faticosamente raggiunte negli ultimi 20 anni. Dallo scorso settembre le bambine sopra i 12 anni non hanno diritto d’andare a scuola, mentre le restrizioni di genere nelle università hanno causato diversi abbandoni. «L'istruzione è un mio diritto». «Riaprite le scuole», gli slogan scanditi dalle manifestanti. Molte, non tutte, con il volto coperto come invece è imposto alle donne in pubblico dalle recenti disposizioni dei fondamentalisti. Questo denuncia il volto della società tribale e patriarcale che ha ripreso il sopravvento in Afghanistan. La marcia di protesta e di poche centinaia di metri si è conclusa con il sequestro dei cellulari da parte di alcuni miliziani talebani per impedire le riprese. Passano i miei e i diritti faticosamente conquistati negli anni della missione internazionale sembrano evaporare sotto le leggi dei talebani. Il Paese è precipitato nella più grave crisi alimentare degli ultimi anni e le donne sono le ultime nella gerarchia familiare a potersi nutrire, dicono le ONG che si occupano di loro nel Paese. Oltre le segregazioni in casa si impone sempre più diffusamente la pratica del matrimonio forzato e delle spose bambine. Oltre i 18 anni, se non si è trovato marito, rappresentanti dei talebani si impongono come mariti e sposano anche tre o quattro bambine tutte insieme, perché le donne non possono essere o fare nulla se non appartengono ad un uomo, in Afghanistan.























