Kabul un anno dopo, la testimonianza di una rifugiata

Quando ricordo quei momenti mi sento ancora male. C'era una folla enorme che cercava di fuggire dai talebani ammassandosi verso gli ingressi dell'aeroporto di Kabul. Ma molti hanno perso la vita mentre stavano in fila. Ho visto con i miei occhi bambini morire calpestati o di stenti, madri disperate per aver perso così loro figli, anziani che morivano perché semplicemente non potevano resistere. È stato durissimo per me mettermi in fila con i miei cinque figli. Mi sono fatta forza pensando che non potevo tornare indietro. I talebani ci avrebbero uccisi, avrebbero ucciso tutta la mia famiglia, perché mio marito lavorava con la NATO. Ma anche mettersi in fila significava rischiare di perdere tutti i miei bambini. Una volta all'interno infatti mancava l'ossigeno e inoltre c'erano i soldati che sparavano lacrimogeni, i talebani che ci sparavano contro. La mia famiglia d'origine, compresa mia madre, sta ancora in Afghanistan. Mi raccontano quanto miserabile sia diventata la loro vita. Le donne non possono studiare, le bambine, che riescono a frequentare solo le scuole elementari, devono comunque essere accompagnate esclusivamente da un familiare di sesso maschile. Nessuna donna può uscire di casa senza un uomo che l'accompagni anche se è malata ed ha bisogno di aiuto, anche se è da sola e deve cercare il cibo per sfamare i suoi figli. In pratica non possono vivere. Come se stessero in prigione nelle loro case. Alcuni mesi fa la mia compagna di classe molto coraggiosa mi ha detto che sarebbe scesa in strada con altre donne per protestare e rivendicare i loro diritti. Purtroppo i talebani le hanno attaccate, picchiate, e ne hanno uccise almeno due o tre sparandogli contro. Lei piangeva mentre raccontava che era obbligata a rinchiudersi in casa senza speranza di poter raccontare il suo dolore, la sua disperazione e la sua impotenza.