La famiglia di Cecilia Sala chiede il massimo riserbo sulla vicenda della giornalista detenuta nel carcere iraniano di Evin dal 19 dicembre con l'accusa di aver violato le leggi della Repubblica islamica. Ma c'è chi invece sostiene che non si debba rimanere in silenzio, che l'attenzione vada tenuta alta, che del caso e di Cecilia bisogna continuare a parlare. E lo dice con forza chi quella esperienza l'ha vissuta, quella di essere rinchiuso magari per anni nella famigerata prigione di Teheran dalla quale sono passati i più noti dissidenti ma anche presunti oppositori e cittadini con doppia nazionalità arrestati nella Repubblica degli Ayatollah. Certo la vicenda è complessa, tutta politica, intrappolata com'è in dinamiche internazionali delicatissime. Il caso di Cecilia Sala e quello di Mohammad Abedini corrono infatti su binari paralleli. E se si parla delle trattative per la liberazione della giornalista italiana si finisce inevitabilmente a parlare dell'ingegnere iraniano fermato a Malpensa su mandato degli Stati Uniti che ne chiedono l'estradizione con l'accusa di cospirazione e supporto al corpo delle guardie della rivoluzione islamica. Il prossimo 15 gennaio la Corte d'Appello di Milano dovrà discutere la richiesta dei domiciliari avanzata dalla Difesa. Intanto l'Iran definisce illegale il suo arresto. Si aspetta che l'Italia rigetti la politica sugli ostaggi portata avanti da Washington e che crei le condizioni per il rilascio di Abedini. A rischio, fanno sapere, ci sono i rapporti tra Roma e Teheran. E sui due attori principali l'ombra degli Stati Uniti. Sbrogliare questa matassa è complicato. Delicatezza e discrezione sono necessarie per un lavoro che comunque procede sotterraneo.