È giornata di lutto nazionale in Libano. Due anni fa, alle 18:07 del 4 agosto 2020, 2750 tonnellate di nitrato d'ammonio sono esplose nell'hangar numero 12 nell'area commerciale del porto di Beirut. La furia della terza deflagrazione non nucleare più potente della storia recente ha spazzato via interi quartieri. Gemmayzeh, Mar Mikhael, Achrafieh e Karantina riducendo in polvere l'anima della città; oltre 200 i morti, 6500 i feriti, 330 mila le persone rimaste senza casa. L'ipotesi iniziale di un attentato ha perso subito consistenza sbattendo in faccia alla gente una realtà, ben più banale ma tragica, quella di un incidente, un corto circuito dovuta alla calura estiva e alle scatole di fuochi d'artificio riposte vicino al nitrato. Eppure a due anni di distanza non c'è ancora giustizia, l'inchiesta portata avanti da giudice Tareq Bitar è ferma da mesi, perché alcuni funzionari governativi e ministri coinvolti nell'indagine rifiutano di testimoniare. Intanto, mentre le famiglie delle vittime continuano a marciare per le strade della capitale in attesa di risposte, il Paese affonda nella peggior crisi economica degli ultimi 30 anni; non solo non c'è accesso al credito, ma la Lira libanese, la valuta locale, è crollata perdendo oltre il 90% del proprio valore, l'inflazione intanto galoppa al 200%. Con un salario medio di appena un Dollaro al giorno intere famiglie faticano persino a portare del pane in tavola, ormai quasi 20 volte più costoso di qualche mese fa. In un paese in balia dei blackout, dove la corrente manca oltre 15 ore al giorno, l'acqua va e viene e il carburante si trova a stento, la speranza fatica ad arrivare e lo sconforto aleggia ancora tra le macerie.























