Le dichiarazioni di Benjamin Netanyahu non promettono nulla di buono. Indipendentemente dal fatto che si raggiunga o meno un accordo con Hamas, per il premier israeliano l'operazione a Rafah si farà. Insomma, nonostante il pressing della comunità internazionale il leader del Likud non ha nessuna intenzione di rinunciare all'offensiva nella parte più a sud della Striscia di Gaza, perché a suo dire rappresenterebbe l'ultima spinta necessaria per sradicare i miliziani di Hamas dall'enclave palestinese. Neanche il mandato di arresto per crimini di guerra, che la Corte Penale Internazionale potrebbe emettere nei suoi confronti, sembrerebbe fargli fare un passo indietro. Anzi, per Netanyahu l'Aia non avrebbe alcuna autorità su Israele, e se dovesse accusarlo sarebbe, a sue parole, uno scandalo su scala storica. Eppure, tra annunci e minacce, la diplomazia internazionale lavora per provare a raggiungere un'intesa tra le parti e dunque una tregua. Sul tavolo delle trattative, secondo indiscrezioni del Wall Street Journal, una prima pausa dei combattimenti di tre settimane in cambio del rilascio di almeno 20 ostaggi e della liberazione di un numero imprecisato di detenuti palestinesi, per poi passare ad un cessate il fuoco di dieci settimane, durante le quali Hamas e Israele si accorderebbero su un rilascio più ampio di ostaggi. Mentre si aspetta la risposta del movimento islamista, che dovrebbe arrivare entro mercoledì sera, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres si appella ad entrambe le parti perché trovino un punto di incontro. Intanto, il Segretario di Stato americano Antony Blinken, per la settima volta in regione dal 7 ottobre, prova, in Israele, a frenare il rischio di un'escalation militare.