La storia non si ripete, è vero, ma colpisce che il Cile, 35 anni dopo la caduta della dittatura militare, il 14/12, possa ritrovarsi con un presidente di ultradestra. Certo, José Caste non è Augusto Pinochet e la sua sfidante, la comunista Jeanette Jara, ha ancora margini per vincere. Resta però il dato politico, le presidenziali di domenica hanno cristallizzato un duello che racconta un paese cambiato in profondità, dall'onda progressista che ha portato Gabriel Boric alla moneda, alla centralità assoluta della sicurezza. Una virata brusca spinta dai numeri. In 10 anni gli omicidi sono aumentati del 140%, i rapimenti del 76 solo tra il 2021 e il 2022. Una mutazione per quello che era uno dei paesi più sicuri del continente, oggi attraversato dalla criminalità organizzata dagli omicidi su commissione ai racket importanti. In questo scenario Jara ha ancora un sostegno forte, ma è costretta a parlare meno di welfare e più di lotta ai clan, fino a promettere la revoca del segreto bancario pur dimostrare fermezza. Casta, la sua terza candidatura, sente invece il vento a favore, la sua campagna è costruita su immigrazione e ordine pubblico, le deportazioni di massa per i 337000 migranti irregolari, recinzioni e fossati al confine e riferimenti continui al terrore suscitato dalla banda venezuelana Trenderua. Intanto Camera e metà del Senato sono stati rinnovati, un Parlamento che rischia di spostare ancora più a destra il baricentro politico cileno. Se Cast vincesse il Cile avrebbe il primo governo di destra radicale dal 1990, un ribaltamento simbolico rispetto alle piazze del 2019 e alla promessa mancata di Boric di chiudere l'era costituzionale di Pinochet. Ma il voto cileno pesa anche oltre i suoi confini una cartina di tornasole per la sinistra sudamericana, già sconfitta in Argentina e Bolivia, e ora chiamata sfide decisive nelle presidenziali colombiane e brasiliane del prossimo anno. .























