Odio che richiama odio in una spirale di sangue che spaventa per le dimensioni che potrebbe assumere. Quello avvenuto nella notte scorsa a Londra sembra essere il quarto attacco terroristico che colpisce la Gran Bretagna in meno di tre mesi e dà vigore ai sostenitori della teoria dello scontro di civiltà perché tutti e quattro gli attacchi individuano nel nemico chi non abbraccia la propria fede, chi la pensa diversamente, chi per il proprio credo o appartenenza etnica viene considerato non degno di vivere. È stato così il 22 marzo scorso sul Westminster Bridge a pochi passi dal Parlamento dove Khalid Massud, cittadino britannico di fede musulmana, ha seminato il terrore investendo pedoni a bordo del suo furgone per poi completare la sua azione usando i coltelli, quattro i morti. Un copione che si è ripetuto con diverse analogie, sempre a Londra, all’inizio di giugno: ancora un furgone, ancora un ponte, il London Bridge, ancora attentatori armati di coltelli, ancora gente innocente – otto le vittime in tutto – che muore per strada. In mezzo, il raccapricciante attentato di Manchester costato la vita a 22 persone che avevano partecipato al concerto dell’idolo delle ragazzine, Ariana Grande. È un’inquietante escalation di episodi di intolleranza, costantemente denunciati alla polizia nei confronti della comunità musulmana britannica. Islamico uguale terrorista: è un’equazione che serpeggia subdola anche in una città tollerante come Londra, tra le più cosmopolite al mondo. Fino ad arrivare a quest’ultimo episodio, il più eclatante, che ha preso di mira dai fedeli nel cuore della notte all’esterno di un centro culturale vicino alla moschea di Finsbury Park. Era l’ora della preghiera che segue la rottura del quotidiano digiuno nel mese sacro del Ramadan, che quest’anno si concluderà tra pochi giorni.