Finti utenti che creano eventi, diffondono incitazione all’odio, comprano pubblicità. Negli ultimi due anni 470 account e pagine fake hanno speso circa 100.000 dollari in inserzioni politiche su Facebook, e inchieste internazionali hanno scavato fino all’origine delle troll farm, vere e proprie fabbriche di troll scatenati on-line al servizio di obiettivi più grandi, come quello di influenzare il voto per le elezioni americane nel 2016. Proprio sul caso Russiagate l’affidabilità dei social network si incrina. Dopo anni di reticenze e piccole ammissioni da parte dei giganti social, sembra essere arrivato il momento per una prima seria resa dei conti. I dirigenti di Facebook, Twitter e Alphabet, la casa madre di Google, sono stati invitati a testimoniare nelle prossime settimane al Congresso degli Stati Uniti sulla presunta influenza russa nelle ultime elezioni americane. La notizia giunge a pochi giorni dal tweet del Presidente americano che accusava Facebook di essere sempre stato anti-Trump. Mentre Mark Zuckerberg continua a definire la propria creatura una piattaforma per tutte le idee, che pure mantiene ufficialmente una real name policy, l’obbligo di iscrizione con il nome reale, per scongiurare il rischio che si diffondano utenti falsi. Una politica molto contestata, che Twitter, ad esempio, non ha adottato: per cinguettare basta uno pseudonimo. Così, per combattere i milioni di account fake nel mondo, non bastano le segnalazioni dei privati e il rischio è che i troll si nascondano dietro ogni fatto della vita pubblica e dietro ogni hashtag.