Lo aveva promesso, e con la sua firma sono ordine esecutivo. Donald Trump lo ha fatto: congelato per centoventi giorni l’ingresso dei rifugiati negli Stati Uniti. Passati quattro mesi, sarà data priorità innanzitutto alle minoranze cristiane perseguitate. Obiettivo dichiarato quello di “non consentire l’ingresso nel Paese della stessa minaccia che – ha spiegato – i nostri soldati combattono all’estero”. Trattamento diverso per i profughi siriani, per i quali l’ingresso negli Stati Uniti viene sospeso a tempo indeterminato. Per loro, in fuga dalla guerra, Trump ha ben pensato alla creazione di safe zone dentro e intorno alla Siria. E non finisce qui. Il neopresidente va avanti lungo il suo cammino e dispone anche il divieto d’ingresso per tre mesi per i cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana: Siria, Libia, Iran, Iraq, Somalia, Sudan e Yemen. Una svolta per un Paese da sempre multiconfessionale, che ha generato confusione all’interno e preoccupazione all’esterno. Mentre l’UNHCR auspica che gli Stati Uniti continuino a rispettare la tradizione di proteggere coloro che fuggono da conflitti e persecuzioni, l’ONU ha espresso la speranza che si tratti di misure solo transitorie. Da Teheran la reazione più forte. Le autorità hanno annunciato che, fino a quando l’ordine esecutivo di Trump non sarà revocato, sarà vietato l’ingresso in Iran ai cittadini americani. Del discusso provvedimento ha parlato espressamente nel corso di una telefonata il Presidente francese Hollande, che ha invitato l’Amministrazione Trump a rispettare il principio dell’accoglienza. Ma è stato l’unico a farlo, in una giornata scandita da consultazioni telefoniche con i principali leader europei. Con Putin si è, infatti, discusso della volontà di entrambi di sviluppare relazioni paritarie e dell’intenzione comune di un autentico coordinamento in Siria per sradicare l’Isis, con Angela Merkel della NATO e del ruolo fondamentale che l’Alleanza atlantica ha nell’assicurare pace e stabilità.