Addio a quarant'anni di guerra e a 50mila morti. Il PKK, il partito che si batteva per l'indipendenza dei curdi in Turchia nel suo ultimo congresso ha accolto l'appello lanciato dal suo leader, Abdullah Ocalan, rinchiuso da 26 anni nel carcere di Mrali. E così le formazioni combattenti ancora attive soprattutto nel sud est della Turchia, hanno accolto tutte le loro armi e le hanno abbandonate in luoghi indicati alle autorità. Si chiude così una delle lotte interne più sanguinose della storia contemporanea e si avvia un percorso politico per la gestione, non la risoluzione della secolare questione curda. Perché il problema viene da dire, come sempre, è molto più complesso. Il Kurdistan come entità statuale, è una breve parentesi nella storia, nel 1946 per poco meno di un anno, la leggendaria Repubblica di Mahabad. La cultura curda però è antichissima e radicata nel Medio Oriente da secoli. Basti pensare che era curdo anche il leggendario conquistatore di Gerusalemme, Saladino, e questa identità così forte da sempre in conflitto con il nazionalismo turco, che a partire da Kemal Ataturk, ha sempre visto con ostilità alle comunità non omogenee e la loro cultura di origine altaica. Non sempre la comunità internazionale è stata coerente nei confronti del PKK, a volte considerandola un'organizzazione terroristica, a volte guardando con mal celata simpatia, soprattutto in contrapposizione alle derive autoritarie del sultano Erdogan. E se è vero che il Kurdistan non esiste, è anche vero che i curdi suddivisi tra Turchia, Iran, Iraq e Siria, hanno svolto un ruolo cruciale nella lotta all'ISIS e che l'Occidente li ha spesso sostenuti; si pensi alla battaglia di Kobane. La facilità e la pacificazione ha contribuito alla non opposizione dei curdi, non il sostegno, all'ascesa dell'HTS di Al Jolani a Damasco, che ha nella Turchia il principale supporter. Da non trascurare poi il preoccupante calo dei consensi di Erdogan, perdente nella battaglia per risollevare l'economia, deve appuntarsi almeno una vittoria. .