"Quando le ho parlato l'ultima volta, un'ora fa, mia mamma ha detto di non preoccuparsi, che lei sta bene, che è tranquilla. Mi ha detto che gli spari erano lontani, almeno non troppo vicini. Mi ha detto che proprio vicino a casa, non è successo niente, che lei si è preparato qualcosa da mangiare, ha fatto il Borsch. Domani mi richiama." Svetlana ha 50 anni e fino a una settimana fa, viveva a Kiev. Ha dovuto lasciare sua madre a Komyshuvakha, paesino a 30 km dalla centrale nucleare di Zaporizhzhya, quella presa dai russi nei primi giorni di guerra. L'ha dovuta lasciare, perché lei non ne ha voluto sapere: da casa sua non se ne va. E allora Svetlana e il suo compagno italiano, Matteo, 53enne, mediatore commerciale, residente in Ucraina dal 1991, hanno portato via dall'inferno, chi hanno potuto. Due figli: Lucrezia 16 anni, figlia di un primo matrimonio di lui e il piccolo Marco, 9 anni a giorni, che Svetlana ha avuto da Matteo. "Sirene, missili, sei sempre sotto un flusso di informazione che ti fan vedere ovviamente le cose che stanno succedendo. Per cui non è sicuramente la cosa migliore. Per cui abbiamo iniziato questo viaggio." "il momento peggiore? Quello alla frontiera. Per uscire abbiamo fatto 20 ore di coda, la macchina piena, l'attesa, la stanchezza, la paura. Nevicava. Quel momento me lo ricorderò." "Oggi che cosa che cosa si prepara?" "Immagino il Borsch ?" "Oggi il Borsch, esatto." "Che è la zuppa tipica ucraina?" "Si" Ora tutta la famiglia e a Milano, ospite del fratello di lui e il piccolo Marco ha anche ricominciato la scuola. "In Ucraina, hanno detto che in tutte le regioni dove c'è un po' più di calma, di riprendere le attività, tra virgolette, normali, per quanto sia possibile." "Quindi anche la scuola?" "Inclusa la scuola." "E i suoi compagni sono in presenza, là?" "Non tutti. Perché su una classe di 30 persone, penso che ci saranno una buona metà, un po' sparsi per il mondo.".























