Sarebbero stati cinquant'anni. Mezzo secolo di un diritto fondamentale cancellato invece con un tratto di penna sette mesi fa. Con il rovesciamento della storica sentenza Roe vs Wade del 1973 stabilito dalla Corte Suprema, oggi negli Stati Uniti l’aborto non ha più una protezione federale. Sono i singoli Stati a decidere, con il risultato che quelli repubblicani hanno approvato norme per vietarlo, e quelli democratici si sono affrettati a salvaguardarlo nella propria Costituzione. Subito è iniziata la battaglia legale: contro molti divieti sono stati presentati ricorsi, in conseguenza dei quali alcuni di essi non sono ancora effettivamente entrati in vigore e sono sospesi in attesa dei pronunciamenti dei giudici. Insomma, un complesso e confuso mosaico di situazioni che variano da Stato a Stato. I primi dati preliminari sulle interruzioni di gravidanza dopo la sentenza di giugno indicano un calo nelle procedure inferiore al 10% a livello nazionale. Ma non registrano la drammatica realtà: abortire oggi in America è solo diventato più difficile, costoso e pericoloso. Metà delle donne che intraprende questa scelta vive sotto la soglia di povertà, la maggior parte sono afroamericane che non possono permettersi di viaggiare negli Stati dove la procedura è consentita. La politica non c’entrerebbe nulla: oltre il 60% degli americani pensa che l’aborto sia un diritto, eppure la battaglia ideologica continua anche dopo la decisione della Corte Suprema. Mentre la Casa Bianca emana provvedimenti a tutela della salute riproduttiva (la pillola del giorno dopo ad esempio non è considerata abortiva) e chiede al Congresso di tutelare le donne a livello federale, gli attivisti che si chiamano 'pro-life' marciano non più sulla Corte Suprema ma verso quello stesso Campidoglio, chiedendo di introdurre restrizioni ai viaggi negli Stati abortisti o leggi per incriminare di omicidio chi aiuta una interruzione di gravidanza.