C’era una volta il Senato del Regno, tutti nominati a vita dal Re. Arrivata la Repubblica, i padri costituenti decisero comunque di riservare cinque scranni della nuova assemblea elettiva a cittadini che avessero illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario, affidandone la scelta al Capo dello Stato. Negli anni, diverse forze politiche hanno chiesto l’abolizione di questo istituto. La riforma non cancella i senatori di nomina presidenziale, ma li rende a tempo: “In carica sette anni e senza stipendio”, recita il nuovo articolo 59 della Carta. Restano di diritto gli ex Presidenti. Trentasette, fino ad oggi, i senatori a vita, Luigi Einaudi ne nominò ben otto, Oscar Luigi Scalfaro nessuno. A Palazzo Madama entrarono Trilussa e Montale, De Filippo e Bobbio, ma c’è pure chi non volle mai varcare quel portone, Arturo Toscanini, dimessosi un pugno d’ore dopo la nomina, e Indro Montanelli, che rifiutò l’incarico ancor prima che venisse formalizzato. Qualcuno provò a uscire dal palazzo. Due volte Francesco Cossiga presentò le dimissioni, respinte. Attualmente sono cinque in carica, oltre al Presidente emerito Giorgio Napolitano, quelli da lui nominati: Mario Monti, Renzo Piano, Elena Cattaneo e Carlo Rubbia. La loro partecipazione ai lavori parlamentari è molto bassa, intorno al 7 per cento, contro una media d’aula del 74 per cento, dati simili a quelli delle passate legislature. Proprio sull’assenteismo ha puntato il dito nel tempo il fronte dell’abolizione, insieme a un altro elemento tutto politico. Perché, se è vero che i senatori a vita votano poco, il loro voto può essere prezioso, se non determinante, per le maggioranze fragili. Ai tempi del secondo Governo Prodi, i senatori a vita, Rita Levi Montalcini soprattutto, finirono spesso nel mirino del centrodestra, accusati di fare da stampella all’Esecutivo.























