“Se ti nascondi dentro alla cassaforte basta che scambi i sacchetti quando quello va a fare i giri, hai capito?” C'è un fatto di cronaca che risale al 1996, all'origine de “Gli uomini d'oro”, seconda prova da regista di Vincenzo Alfieri, che firma una commedia all'italiana a forti tinte noir. Un lavoro che si ispira un po' al Monicelli de “I soliti ignoti”, un po' al Tarantino de “Le iene”. “Abbiamo cercato di creare un nostro linguaggio, quindi, innanzitutto, regalando un film a capitoli, quindi dove ognuno di loro, degli uomini d'oro, ma anche Edoardo Leo, ha il suo punto di vista su questa rapina, e, appunto, non è tanto un film che parla di una rapina, quanto delle persone che l'hanno fatta e del perché hanno deciso di fare una rapina”. “Me n'agg ai', uagliò. Mi mancherete”. Giampaolo Morelli nel film è la mente del furto. “Quando ritiro il furgone io sono senza scorta”. “La difficoltà è stata quella di partire proprio dal suo dramma, dai suoi desideri. Era un uomo che, comunque, viveva di discoteche, di belle donne, di begli abiti, aveva il sogno di aprire un chiringuito in un posto caldo, il bar in Costa Rica, e si è trovato infranto questo sogno, quindi decide di realizzare questo colpo rubando i soldi che tutti i giorni lui porta nel furgone, perché lui è un autista del portavalori delle Poste”. Con lui ci sono Edoardo Leo, nella finzione il lupo, e Fabio de Luigi, che incarna Alvise il cacciatore. “Una persona particolarmente, che parte come una persona apparentemente tranquilla, ma in realtà, via via che il film si sviluppa, tira fuori un un lato scuro, molto scuro, anche cinico e calcolatore mi viene da dire. E quindi è un ruolo lontanissimo da quello che normalmente faccio al cinema”. “Gli uomini d'oro”, ci dice il regista, insegna che il crimine non è per tutti, ma tutti possono essere criminali. “Ao', ma io ti conosco a te”. “No, io a te no”. “Sei il pugile. Il lupo. Una volta ho pure scommesse su di te”. “No”. “Sei bravo. Tu mi hai fatto perdere un sacco di soldi”.