La World Press Photo Exhibition ci mostra, una volta di più, che un'immagine vale più di mille parole, figuriamoci quando le immagini sono 139, raccolte tutte insieme in un'esposizione che, prima di tutto, è un viaggio affascinante nel nostro tempo. Un tuffo nella contemporaneità che provoca, disturba, coinvolge, ma che mai lascia indifferenti. Al Palazzo delle esposizioni di Roma, per il secondo anno consecutivo, approdando i finalisti del famoso premio di fotogiornalismo, artisti della macchina fotografica in grado di fissare per sempre, in un click, le guerre sanguinose, le rivolte estreme, i volti sofferenti e quelli rabbiosi, gli animali rari, gli oggetti bizzarri, i paesaggi deturpati dall'uomo. La nostra vita, insomma, immortalata nella potenza del bianco e nero, così come nella chiarezza del colore. Il vincitore, quest'anno, è il giapponese Yasuyoshi Chiba, la sua foto scattata nel giugno del 2019, si intitola Straight Voice e ci catapulta in Sudan, in mezzo a un gruppo di giovani che protestano per ottenere un Governo democratico, mentre recitano poesie alla sola luce dei telefoni cellulari, durante blackout. In esposizione ci sono anche, e questo da solo vale la visita, dieci immagini culto degli ultimi decenni, dallo studente di Piazza Tienanmen, che nel 1989 fermava i carri armati, ai ragazzini vietnamiti, in fuga dalle bombe nel 1972. Dalla giovane afghana sfigurata per aver lasciato il marito, ritratta 2010, alla studentessa di colore che nel 1957 entrava in classe, presa in giro dai suoi compagni, dopo la fine della segregazione razziale. Una vecchia foto, quest'ultima, che torna drammaticamente attuale alla luce delle proteste che oggi infiammano il mondo, dopo l'assassinio di George Floyd.