Quando da ragazzo Gigi Riva era arrivato in Sardegna, l'isola era, allora più di oggi, terra arida e difficile ma senza pozzi di petrolio, ne milioni da elargire, in verità pensa di restarci poco, invece finì per non andarsene più scegliendo di farsi più sardo dei sardi. Negli anni in cui, dopo aver regalato all'isola all'unico indimenticabile scudetto, era l'eroe delle partite in bianco e nero giocate con la maglia numero 11 della nazionale, non c'era ragazzino in Italia che non volesse essere Gigi Riva. Il che certo significava avere un piede sinistro di potenza prodigiosa, la capacità di arare il campo di gioco, ma soprattutto essere un uomo come lo era lui. Uno che rifiutava i miliardi degli Agnelli e dei Moratti per non tradire la parola data a gente che lo aveva eletto a simbolo del proprio riscatto, affidandogli semplicemente il cuore. Uno che arriva scolpiti, fin nei lineamenti ossuti, un passato parecchio difficile: il papà morto in fonderia, che lui aveva nove anni, la mamma poco dopo, l'istituto religioso, la sorella a crescerlo da sola. Uno che parlava pochissimo, un emigrante al contrario che quando dal Sud, a migliaia, partivano ancora con la speranza di intercettare quelli che ormai erano gli scampoli del boom economico, aveva scelto di trasferirsi dalla sponda lombarda del Lago Maggiore all'Isola dei pecorai, come nel resto d'Italia chiamavano i tifosi del Cagliari. Uno che era stato capace di riscattare la provincia nel senso più pieno del termine, uno che grazie a tutto questo, e ci riescono solo i grandi, in tutti era stato capace di suscitare solo ammirazione, che è l'esatto contrario dell'invidia.