Un colonnello egiziano era in possesso del passaporto di Giulio Regeni, prima della perquisizione il 24 marzo 2016 nell'abitazione di uno dei cinque componenti della banda criminale che venne accusata, dalle autorità del Cairo, dell'omicidio del ricercatore friulano. La circostanza emergerebbe da un audio che la procura di Roma ha chiesto di acquisire nel processo a carico di quattro agenti dei servizi segreti egiziani. Ennesimo elemento che dimostra l'inconsistenza di quella ricostruzione, un depistaggio, lo dice con chiarezza il colonnello del ROS Onofrio Panebianco. "Comincia a profilassi l'ipotesi che tutto quel fatto fosse in realtà, diciamo, un qualcosa adattato alle esigenze di attribuire la responsabilità del sequestro, della tortura e della morte di Giulio Regeni a qualcuno che non fossero gli apparati, diciamo, di sicurezza egiziani". Mostra i tabulati che confermano i contatti tra due colonnelli egiziani, uno dei quali aveva partecipato alla sparatoria, l'altro figura centrale delle indagini sul Giulio Regeni quando era ancora in vita. E una serie di oggetti consegnati solo nel 2020, quattro anni dopo, agli investigatori italiani, oggetti che però, "non appartenevano a Giulio, almeno questo è emerso dal riconoscimento dei genitori di Giulio, evidentemente conoscevano il figlio molto bene, non sono si può dire, sostanzialmente non sono cose di Giulio quelle, a parte il tesserino". In aula anche i consulenti della procura che hanno lavorato sul video della metropolitana del Cairo, dal quale hanno tentato di recuperare immagini, ma in quel video, "C'è un buco temporale di immagini visibili di circa 18 minuti per quanto riguarda le immagini e di circa 20 minuti per quanto riguarda i video, tra le 19:49 e le 20:08 circa". È il 25 gennaio 2016 e in quei 20 minuti Giulio Regeni spariva.