Per capire perché l'attacco agli impianti petroliferi sauditi spaventi così tanto i mercati, con il rischio di un balzo duraturo dei prezzi del greggio, basti pensare che a finire nel mirino sono stati i due maggiori impianti del Paese mediorientale, che è anche il primo esportatore mondiale di oro nero. Le due raffinerie da sole garantiscono metà della produzione dell'Arabia Saudita, che nei mesi scorsi è tornata a impugnare lo scettro di maggior fornitore globale. Gli stati Uniti, grazie alle nuove tecnologie che permettono di estrarre petrolio da sabbia e roccia, contendono a Riad il primato della produzione, ma Washington utilizza questo greggio perlopiù per sé, con il risultato di non figurare tra i maggiori esportatori. Così, mentre l'America va verso l'autosufficienza per quanto riguarda gli idrocarburi, l'Arabia Saudita viene considerata cruciale per i rifornimenti. Riad, inoltre, possiede le maggiori riserve accertate a livello planetario, poco dopo il Venezuela, e va considerato anche il grande peso che ha all'interno dei paesi dell'OPEC, l'organizzazione che mette assieme il 44% della produzione mondiale del petrolio, che, a seconda di come apre i rubinetti, influenza il prezzo dell'oro nero. Insomma, ce n'è abbastanza per temere che queste fibrillazioni, oltre alle ripercussioni geopolitiche, finiscano per pesare anche sul prezzo della benzina al distributore. C'è da ricordare, però, che un aumento delle quotazioni sui mercati non si riflette immediatamente e nella stessa misura sul costo del carburante. Quest'ultimo non dipende direttamente dal barile, ma dal cosiddetto Platts che fotografa i prezzi dei prodotti raffinati per centinaia di compagnie energetiche. I due valori, ovviamente, sono correlati, ma, anche nel caso di grandi fiammate del barile, gli aumenti non si trasferiscono in misura completa sul litro di benzina. Il prezzo del pieno è dovuto solo in parte, circa un quarto, al costo della materia prima. Sul litro di verde, infatti, il 65% di quello che spendiamo sono tasse.