Dopo acciaio e alluminio, Donald Trump agita lo spettro dei dazi all’importazione per le auto europee. Tassare le quattro ruote del Vecchio Continente prima di farle girare per le strade americane è al momento solo una minaccia, ma dopo aver preannunciato le tariffe al 25 e al 10 per cento su acciaio e alluminio, invocando la sicurezza nazionale, il numero uno della Casa Bianca fa più paura. Così, mentre Trump nel suo tour elettorale vanta i benefici dei dazi, esenta dagli stessi Canada, Messico e Australia. L’Europa, insieme alla Cina, appare come il principale destinatario delle barriere all’import, dazi che andrebbero a colpire, per quanto riguarda il Vecchio Continente, l’industria siderurgica, con un danno potenziale di quasi 3 miliardi di euro. Se poi la provocazione di caricare di imposte anche l’industria automobilistica europea diventasse realtà, a subire il colpo sarebbe un altro settore cruciale per la nostra economia. Per l’Europa l’America è il primo cliente di veicoli. La Germania, con Mercedes e BMW, è in prima linea, ma anche l’Italia deve augurarsi che i dazi non arrivino. Gli Stati Uniti sono il primo Paese per le esportazioni delle nostre auto, per un valore di oltre 450 milioni di euro. Sergio Marchionne, capo dell’italoamericana Fiat Chrysler, di recente ha detto che alla Ferrari i dazi costerebbero 200 milioni, anche se difficilmente a causa loro ci sarebbe un calo delle vendite. L’Unione Europea finora è stata compatta nel respingere le bordate di Trump, insistendo nella richiesta di esenzioni nelle trattative, che proseguiranno sino al 23 marzo, quando entreranno in vigore i dazi. L’alternativa è contenuta in una lista, non ancora ufficiale, di prodotti a stelle e strisce che subirebbero a loro volta tributi, dai jeans al bourbon, passando per le motociclette. E chissà che non spuntino anche le auto, visto che l’Europa è il terzo destinatario al mondo di quelle fabbricate nella terra di Trump. La guerra commerciale è da evitare, non solo per le aziende, ma anche per le possibili ripercussioni sull’occupazione e sui costi dei beni per i consumatori, che rischierebbero di aumentare.