Un messaggio diretto al mondo. Donald Trump lo ha precisato sin dai primi minuti dell’attacco contro la base aerea siriana. Quei missili non erano lanciati solo contro Assad, ma erano un monito rivolto anche ad altri. Non accetteremo più provocazioni: questo è il fulcro della nuova dottrina del Presidente americano in politica estera, una dottrina che ora guarda intensamente anche verso la Corea del Nord. Il regime di Pyongyang, d’altronde, ha interpretato le operazioni statunitensi in Siria con una giustificazione per i test missilistici nordcoreani. Per tutta risposta, Trump ha spostato una flotta d’attacco dotata di portaerei da Singapore verso la penisola coreana. L’altro destinatario del messaggio muscolare trumpiano era sicuramente l’Iran, che ha bollato la nuova strategia americana come un errore. “Obama ha creato l’Isis; Trump lo sta rafforzando” ha chiosato la guida suprema Khamenei. Infine, c’è la Russia, verso cui, però, Washington non vuole una chiusura totale, anche perché gli interessi comuni sono tanti e importanti, a partire dalla lotta allo Stato islamico. Ed è proprio questo che tra un paio di giorni, il 12 aprile, il Segretario di Stato Rex Tillerson andrà a dire a Mosca al Ministro degli esteri russo Lavrov, provando a rimandare ad un secondo momento la discussione più ostica sul destino di Assad, anche perché lo stesso Tillerson, a differenza dell’ambasciatrice americana all’ONU Nikki Haley, memore del caos con cui ancora convive la Libia dopo l’epilogo di Gheddafi, non è convinto che rimuovere il regime di Damasco sia la scelta più giusta per assicurare alla Siria un futuro di pace.