Un incubo iniziato oltre 30 anni fa, nel settembre del 1988. Fu allora che nelle librerie arrivò i Versi Satanici, quarto romanzo di Salman Rushdie, quello più famoso, quello che gli ha cambiato la vita. Ispirato al profeta Maometto, il libro suscitò l'indignazione e la rabbia di parte dei lettori musulmani, bollato come bestemmia contro l'Islam, il profeta e il Corano. In pratica, blasfemo. Il 14 febbraio dell'89, l'ayatollah Khomeyni, allora leader supremo dell'Iran, lanciò contro lo scrittore nato in India, da famiglia di fede islamica, una fatwa, una condanna a morte. Fatwa ritirata dall'ayatollah Khatami, ma poi ribadita nel 2005, rinnovata nel 2017 e ancora, due anni dopo. Una maledizione che ha inevitabilmente condizionato la sua vita, che per due decenni l'ha costretto a vivere sotto scorta e con un nome falso, Joseph Anton, scelto in onore di due scrittori molto amati: Joseph Conrad e Anton Cechov. Per 13 anni in Gran Bretagna, aveva poi scelto gli Stati Uniti dove si sentiva più sicuro, tanto da aver gradualmente rinunciato alla protezione e in un libro, Joseph Anton appunto, aveva raccontato la sua vita in fuga, da uomo braccato, i nascondigli e la paura. Lunga la scia di sangue, conseguenza della pubblicazione dei Versi Satanici, perché la fatwa si è estesa anche a traduttori ed editori. Il giapponese Hitoshi Igarashi, ucciso nel suo ufficio nel '91, il traduttore italiano Ettore Capriolo ferito a coltellate nella sua casa milanese nello stesso anno e l'editore norvegese William Nygaard, che dopo averlo pubblicato venne raggiunto da tre colpi di arma da fuoco, senza contare tutte le persone rimaste uccise durante le manifestazioni di protesta e le contro-manifestazioni di sostegno. Sono passati oltre tre decenni da quella condanna a morte, ed evidentemente qualcuno non l'ha dimenticata.