Durante l'ultimo mese di guerra nella capitale libica Tripoli le organizzazioni umanitarie internazionali hanno ripetutamente lanciato appelli per i migranti detenuti nelle zone limitrofe alla linea del fronte. L’UNHCR, Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha chiesto che i migranti bloccati nei centri di detenzione di Tripoli siano immediatamente evacuati verso aree più sicure, dopo che un attacco aereo ha colpito un edificio a meno di cento metri dal centro di detenzione di Tajoura, in cui sono presenti 500 persone. Sam Turner è il capomissione di Medici senza Frontiere in Libia. Anche per le organizzazioni umanitarie presenti a Tripoli raggiungere i centri di detenzione per portare aiuti e prestare soccorso è sempre più pericoloso, perché i combattimenti stanno toccando aree residenziali della periferia della capitale. Siamo molto preoccupati per la popolazione civile. La differenza con i rifugiati e migranti è che questi ultimi non hanno la possibilità di scappare e lasciare i centri di detenzione e cercare rifugio e un luogo sicuro. Nelle ultime settimane alcune decine di migranti sono state spostate in altri centri lontani dalle aree di conflitto e ritenute più sicure. Ma restano in uno stato di detenzione arbitraria. Noi chiediamo che vengano prese altre iniziative perché la Libia non è un posto che possa offrire loro sicurezza o protezione. Perciò l'unica cosa da fare è evacuarli interamente. A fine aprile anche il centro di detenzione di Qasr bin Ghashir è stato attaccato da un gruppo armato. All'interno c'erano 700 persone, tra cui donne e bambini. Munir, sua moglie e i suoi figli sono scappati dall'Eritrea e il giorno dell'attacco erano all'interno del centro. Oggi sono ospitati in una struttura della Mezzaluna Rossa libica, a Tripoli. Sono ancora traumatizzati. I militari che erano di guardia al centro di detenzione sono scappati e siamo rimasti soli. Prima che arrivassero i soldati siamo rimasti cinque giorni senza cibo e con pochissima acqua. Abbiamo dato acqua con un po' di zucchero ai bambini. Non avevamo nient’altro. Dopo qualche giorno hanno fatto irruzione dei soldati armati. Erano gli uomini di Haftar. Volevano i nostri telefoni e i soldi. Quando sono entrati c'erano dei cristiani che pregavano a terra. I soldati hanno chiesto di fermare la preghiera. Ma loro si sono rifiutati e i soldati hanno cominciato a sparare a caso. Alcuni di noi sono stati feriti. Munir mostra queste immagini girate il giorno dell'attacco. Il rumore degli spari, le grida, le immagini dei feriti. Abbiamo sofferto tanto nei centri di detenzione, anche prima della guerra. A Qasr bin Ghashir eravamo divisi in tre hangar, le famiglie divise, gli uomini separati dalle donne e dai bambini. Alcune donne sono state stuprate di notte, sono scomparse tante persone. Ogni tanto venivano dei medici per curarci, ma quando arrivavano i delegati di UNHCR non avevamo la libertà di parlare, i guardiani non ci lasciavano parlare con tutti. È stato molto difficile. Nel centro della Mezzaluna libica ci sono altre 30 famiglie. Sono state tutte spostate qui dalle zone dei combattimenti. Gli aiuti sono scarsi. Poche le medicine, poco il cibo, che non basta per tutti. Anche Adnan Mouda, sua moglie e sua figlia vivono qui. Sono scappati dal Darfur e sono in Libia da due anni. Adnan mostra i suoi documenti sudanesi. Attestano che sia uno sfollato. Mostra anche la registrazione con UNHCR fatta a Tripoli e la denuncia di scomparsa che sua moglie ha fatto alla polizia libica ad Abu Salim, quando Adnan è stato rapito. Volevo arrivare a Tripoli, dice l’uomo, per cercare lavoro, ma un gruppo di uomini armati mi ha fermato e forzato a salire in un'auto. Mi hanno portato in un hangar di campagna e sono rimasto lì per quattro mesi. Adnan è stato costretto a lavorare ogni giorno per i suoi rapitori che la sera lo chiudevano a chiave in uno stanzone con altre persone rapite. Quando un uomo ha provato a scappare i miliziani gli hanno sparato alle gambe. Sono anziano e quando dicevo di essere stanco mi minacciavano con le armi, dice Adnan. La sua famiglia ha dovuto pagare un riscatto per ottenere la sua liberazione. Oggi soffre con altre 150 persone sfollate come lui le conseguenze dell'offensiva del generale Haftar su Tripoli. Offensiva che non sembra avere una soluzione rapida né facile.