Marco Pantani non si dimentica, Marco Pantani non può essere dimenticato, è la nostra recente memoria, una leggera ventata di passato. Un passato triste per come si è conclusa la sua vita il giorno di San Valentino. Una brutale e fine di un grandissimo campione, una fine che lascia mille dubbi che vanno cercati nei suoi ultimi anni, ma è anche una ricerca della verità, dei tanti perché, di come realmente è successo, di come si è scritta la parola "fine". Di certo vi sono enormi lacune nell'inchiesta, con mille interrogativi che si pone la famiglia, si pongono gli amici o semplicemente chi gli ha voluto bene. A noi rimane la sua carriera, le sue vittorie, i suoi immancabili gesti, la sua immane classe, i suoi trionfi. Pantani ha riportato il nostro ciclismo all'epopea eroica, a quella dei grandi successi in salita, alle imprese su vette inarrivabili, a quel suo incedere irrefrenabile su ogni rampa, su ogni asperità, su ogni pendenza. Era come tenere un cavallo di razza frenato, bloccato, ma quando la strada si impennava, lui mani basse, testa giù, partiva, voleva per respirare, tagliando il traguardo, quel profumo di solitudine e vittoria. La sua solidtudine, è stata forse quella la parte debole, la parte attaccabile dove ha avuto breccia quello che non doveva avvenire. Tutto troppo presto, dal suo vincere al suo cadere, dal Giro d'Italia al Tour al 5 giugno di Campiglio, alla sua fine. Due immagini per chiudere. Una: l'affetto della sua squadra, sempre vicina, al Valico di Chiunzi, prima del ritiro per l'ennesima caduta. Molte mani per aiutarlo, per sorreggere il campione. E una, l'ultima in ordine di tempo, sui campi Elisi sugli Champs-Elysées, al termine del Tour de France, Nibali come Pantani, orgogliosi di essere italiani. Allora ti accorgi di quanti gli volevano bene.