La mafia non c’è, la corruzione sì. Inutile ripetere il ritornello corretto secondo cui le sentenze si accettano e non si commentano. La decisione dei tre giudici del Tribunale di Roma lascia vincitori e vinti. Una sconfitta, seppur parziale, per le tesi dell’accusa per quell’impalcatura messa su dalla Procura di Roma e dai magistrati che hanno alle spalle indagini storiche, da Cosa nostra a Mani pulite. Due nomi su tutti: il Procuratore Capo Giuseppe Pignatone e il suo vice Paolo Ielo. Ma se di mafia non si deve parlare più – ci si chiede – è tutto il castello che si sbriciola? La cupola su Roma è stata un’ipotesi investigativa ma anche una costruzione giornalistica, un habitat sociale, un set cinematografico, uno scenario politico. Ecco, la politica. Qui vinti e vincitori si confondono perché sulle imprese dei quattro “cazzari” – il copyright è del legale di Carminati – si sono consumate le sorti di due Governi della capitale, quello di destra di Alemanno e quello di sinistra di Marino, mentre sull’onda dell’indignazione popolare e al grido di riscossa morale è salita al Campidoglio l’Amministrazione a 5 stelle di Virginia Raggi. Nella Roma dei palazzi, strizzata dall’afa, qualcuno ha tirato un sospiro di sollievo come se la mafia si fosse dissolta per una condanna mancata, qualcun altro ha mascherato a fatica la delusione come se le vicende giudiziarie fossero l’unica via per legittimare le scelte della politica. La conclusione è che su Mafia Capitale, o quel che ne rimane, ci hanno marciato un po’ tutti. E la città? È vero, ora manca la parola per definire quella rete di ricatti, impicci, minacce, illegalità, che l’ha tenuta imbrigliata nel mondo di mezzo ma da qui a credersi innocente ce ne passa. Certi metodi, certi codici, un certo modo di fare sono diventati la lingua barbara della Caput Mundi, dagli appalti ai litigi nel traffico, dai Lungotevere a Tor Sapienza, e anche se c’è chi si crede assolto sarà lo stesso coinvolto.