Per capire perché il tribunale di Torino ha dato ragione a Foodora e non ai sei fattorini in bici che hanno portato la multinazionale davanti al giudice dobbiamo vedere che vuol dire essere un rider del cibo a domicilio. Ogni fattorino ha un contratto di collaborazione, che in genere è di sei mesi, nel quale non è stabilito alcuno stipendio fisso. La paga adesso è di 4 euro a consegna, ma in passato e nel caso di Torino era di 5 euro e 60 centesimi lordi l’ora. Bici e smartphone li mette il fattorino, che, quando riceve un messaggio sul telefono per effettuare una consegna, decide se rispondere oppure no. È su questo punto che va cercato il motivo per cui il tribunale ha dato ragione a Foodora, respingendo il ricorso dei fattorini, che chiedevano il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato. Chi pedala per il colosso di Monaco è, quindi, considerato un lavoratore autonomo e, di conseguenza, non ha una serie di tutele che spettano ai dipendenti, salario minimo compreso. L’azienda, a sostegno della sua tesi, durante il processo ha parlato di defezioni di massa, mentre i fattorini hanno detto che venivano controllati nei movimenti, negli orari di lavoro e spronati a fare le consegne. L’intera vicenda era nata dopo che, nel 2016, i ciclisti di Foodora avevano protestato nel capoluogo piemontese per le loro condizioni, lamentando poi che, dopo quell’episodio, non erano più stati impiegati. La multinazionale esclude, invece, che ci siano stati licenziamenti. I rider faranno appello per averla vinta e quanto sarà deciso rappresenterà un precedente importante per la cosiddetta “gig economy”, cioè tutti quei lavoretti pagati poco e a cottimo. A ben vedere, però, il caso Foodora assomiglia molto a una vicenda poco hi-tech che risale a trent’anni fa, quando la Cassazione stabilì che i pony express non erano dipendenti perché potevano decidere se rispondere o meno alla chiamata, all’epoca una vera telefonata.