Alì Muse si era salvato. Era uscito in tempo da quel capannone in fiamme alla periferia di Sesto Fiorentino, ma è voluto tornare dentro per prendere i documenti per il ricongiungimento della sua famiglia che si trova in Kenya. Nel capannone, invaso dal fumo, ha perso subito l’orientamento. È rimasto intossicato. I vigili del fuoco l’hanno trovato agonizzante solo dopo aver spento l’incendio. Forse è colpa di una stufetta difettosa, forse un corto circuito. Poi le fiamme, i materassi a fuoco, il fumo e il panico. “Ero lì dentro. Erano circa le 9.30 quando è successo tutto. Nulla. Sentivo delle grida, sentivo persone che scappavano, ma non mi rendevo conto di quello che stava succedendo. A un certo punto, ho visto la porta aprirsi, i pompieri spuntare con le maschere, tipo un film. Non era un posto dove abitare”. La storia di Alì è quella di altre 110 persone. Due anni di occupazione, sostanzialmente ignorata dalle autorità. Quasi tutti somali con lo status di protezione internazionale sussidiaria, accampati in un capannone abbandonato, l’ex mobilificio Aiazzone. Ora chiedono allo Stato di essere riconosciuti, una nuova sistemazione e un tetto. “Io voglio la verità. Come noi somali, sono i cittadini italiani. Sono di origine italiana. Noi somali. Vogliamo il diritto di vivere e studiare, una casa. L’Europa paga. Vogliamo dignità. Vogliamo solo i nostri diritti e basta”. Nel frattempo, ci sono le tende della Protezione civile, lì, a pochi passi da quel capannone bruciato, con la neve in arrivo.