Il giorno dopo l'arrivo a casa, i saluti dalla finestra, gli striscioni di benvenuta e la calca dei cronisti molto poco attenti alle norme di distanziamento sociale inizia la fase due della vicenda Silvia Romano, su fronti molto diversi. Quello personale, innanzitutto. La giovane cooperante milanese, 24 anni, nei 14 giorni di quarantena anti-covid che l'aspettano, dovrà riprendere dimestichezza con la vita di un tempo. il cibo, gli affetti, le comodità e il giudizio della gente colpita, ovvio, da quello jilbab verde acqua che l’ammantava tutta. Molti sui social hanno criticato la scelta della conversione. Lo stesso pagamento del riscatto, arrivando a insultare la ragazza e la sua famiglia, a minacciarla, spingendo la Prefettura del capoluogo lombardo a valutare, lo si sta facendo in queste ore, l'ipotesi di mettere una pattuglia sotto casa per prevenire il rischio di gesti xenofobi. È la comunità di periferia del Casoretto, il quartiere di Silvia, a interrogarsi sulla libertà delle scelte individuali, dopo 18 mesi di terrore e annientamento psicologico. Poi c'è il fronte giudiziario molto articolato, al di là del lavoro del pool antiterrorismo della Procura di Milano per stabilire se è il caso di aprire un fascicolo di indagine vero e proprio per minacce, c'è quello dei magistrati romani impegnati a chiarire le modalità del sequestro e l'attività del gruppo terroristico che l'ha spostata di covo in covo, gestendo nei misi le trattative per la liberazione. Gli inquirenti, però, hanno acceso un faro anche sull'attività della piccola ONG marchigiana per la quale Silvia lavorava in Kenya: aveva le carte in regola per operare con tutte le garanzie di sicurezza che quel luogo di frontiera richiedeva? Vogliono insomma capire se la ragazza nella scuola del villaggio non lontano da Malindi fosse stata mandata completamente allo sbaraglio.